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Kvara addio, la storia di una Napoli che ha smesso di combattere il potere con la bellezza




di Andrea Spadoni

C’è uno strappo al cuore, un dolore. Una foglia appassita che si stacca dal quell'albero che ammiravi tutti i giorni. L’ultima rimasta, quella che nella stagione buone era più verde di tutte. Accade mentre osservi il mare agitato, quasi a tempesta. Le onde che sbattono su Castel dell’Ovo arrabbiate, come a volerlo affondare.


E’ una giornata di gennaio, fredda e piovosa, in una Napoli stranamente grigia. Meno chiassosa, ancora appesantita dai bagordi delle feste. Lungo le vie dei Quartieri Spagnoli restano le ultime bandiere azzurre appese, in ricordo del tricolore del maggio 20023. C’è un numero 77 che accende ricordi, passioni infinite, che pare staccarsi dal filo dove era appeso, per prendere il volo. Come una lanterna che va via e saluta, per scomparire in cielo. Lassù dove non vi sono limiti e confini, dove l’amore si confonde con la memoria e non viene inquinato dalle esigenze terrene e dal tempo che scorre. Il quadro dei sogni è lì, rimane appeso, per sempre, nell’eternità tracciata dal Dio del Pallone che in quel dedalo di strade strette e sudate, è ancora vivo.


Per raccontare l’addio di Kvaratskhelia a Napoli, c’è da entrare nelle più profonde sfere delle emozioni. Raccontare questo pezzo di storia vissuto insieme è come una canzone. Vengono in mente, oggi mentre scrivo, le parole di Calcutta, nel suo pezzo forse più iconico “Cosa mi manchi a fare”. Nel ritornello dice: “Ma non mi importa se non mi ami più, e non mi importa se non mi vuoi bene, dovrò soltanto reimparare a camminare…”.


E’ vero, ora è necessario imboccare un’altra via. Con gambe ed energie nuove e provare a scacciare quei ricordi, così ancora intensi e laceranti. Kvicha era la storia perfetta per Napoli. Il ragazzo che arrivava dalle periferie d’Europa, con lo sguardo inconsapevole e il cognome impronunciabile. Planato sul prato del campo sportivo che si chiama Diego Armando Maradona, come un prestigiatore del pallone. Corsa tracollante, gioco istintivo che ti fa viaggiare fino alle partitelle di strada dove le porte erano segnate con due zaini o i giacchetta, e una sensazione di strapotere che faceva inneggiare a una nuova rivoluzione, come 33 anni prima.


Battere il potere con la bellezza. Quanto era bello sentirsi liberi di essere se stessi e non fare trattative con il palazzo. Vinci, oppure perdi, ma non sei uno di loro. Poi però ci sono i momenti bui, complicati. Perché se sei libero e coraggioso, puoi inciampare. E da quel palazzo arriva sempre qualcuno che ti dice che non sei capace a vincere, perché lo sa lui come si fa. Uno dei tanti guru, come quelli di internet, che ti spiegano come si fa ad avere successo.


Ci siete cascati. Avete smesso di combattere il potere con la bellezza, avete scelto Antonio Conte, l’uomo del potere. Uno che ne ha vestito gli abiti e ha portato quella fascia da capitano, lassù dove insegnano che vincere è l’unica cosa che conta. Vi hanno fregato. Ora siete con loro, a spartirvi la torta, perché vi piace vincere. Così, quell’eroe arrivato dal nulla, che ancora non avete capito come si chiama, non serve più. Cosa importa delle emozioni, dell’amore, l’importante è essere primi. Come vi dice quell'uomo chi prima combattevate.


Così è finita. Kvicha è volato via e vi hanno convinto che va bene così. Ma fate attenzione, perché è vero che magari sarete primi, ma non vi sentirete più voi stessi. Ve ne accorgerete quando passerà davanti a voi un bambino con la maglia 77 che, con la palla al piede, sterzerà prima verso il campo, poi all’esterno, come faceva il vostro idolo nei giorni felici della vostra vita. D’altronde Napoli è così è anche nu sole amaro.

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